La mula re miezzo
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La mula re miezzo: la condizione delle donne del popolo

Nei borghi dell’osso appenninico dell’Irpinia orientale, come nel resto d’Italia, fino allo scorso secolo – con strascichi che sopravvivono tutt’oggi – predominava il 𝗺𝗼𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗽𝗮𝘁𝗿𝗶𝗮𝗿𝗰𝗮𝗹𝗲 e una cultura e una visione del mondo estremamente 𝗺𝗮𝘀𝗰𝗵𝗶𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮.

La nascita di una figlia era considerata alla stregua di una disgrazia: significava che di lì a pochi lustri la famiglia avrebbe dovuto sborsare un’ingente somma per “maritarla”, avere una figlia non sposata era infatti considerato un disonore. La dote per il matrimonio, indispensabile per salvaguardare l’𝗼𝗻𝗼𝗿𝗲 della famiglia e della donna, era costituita da beni in denaro o in natura e il corredo della sposa.

Questa realtà era valida tanto per le donne benestanti quanto per le donne del popolo, tuttavia, le nate in seno a famiglie benestanti – sparute minoranze nell’ambito delle popolazioni dei paesi – godevano di una considerazione migliore. Per queste ragazze era infatti previsto un percorso educativo e formativo, fermo restando che le “𝘃𝗶𝗿𝘁ù 𝗺𝘂𝗹𝗶𝗲𝗯𝗿𝗶” costituivano le prime qualità da affinare.

La situazione era ben diversa per le 𝗱𝗼𝗻𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗽𝗼𝗽𝗼𝗹𝗼, le 𝑚𝑢𝑙𝑒 𝑟𝑒 𝑚𝑖𝑒𝑧𝑧𝑜: donne che finivano per essere doppiamente sottomesse, ora dal lavoro nei campi, ora dal lavoro domestico o ancora ora dalla patria potestà, ora da quella maritale. Dopo lunghissimi anni di sacrifici e di mite sottomissione e obbedienza a cui erano costrette in giovane età – prima dal padre e poi dal marito, le donne erano destinate a diventare il pilastro della famiglia. Diventavano sagge, di una saggezza acquisita dalle dure esperienze quotidiane e sviluppavano una profonda intelligenza pratica dalla quale dipendeva la sopravvivenza dell’intero nucleo familiare. Divise tra la cura delle vecchie e povere case, quella della prole – incombenza all’epoca esclusivamente femminile, e il compito di provvedere all’alimentazione di tutta la famiglia, erano chiamate a sostenere anche il lavoro nei campi o la cura delle greggi, nel caso fossero state mogli di contadini o di pastori.

Spesso queste donne infaticabili erano 𝘃𝗶𝘁𝘁𝗶𝗺𝗲 di 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮 sia psicologica che fisica, nel 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼 di tutti i membri della famiglia, cosa che nell’Ottocento era talmente comune da essere considerata la normalità.

I 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘁𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 in moltissimi casi erano i mariti, che sfogavano sulle proprie mogli la loro frustrazione o che rientravano in casa ubriachi senza essere in grado di controllare i propri impulsi.

Ma le donne erano vittime anche di violenze all’esterno della famiglia, perpetrate di frequente dai 𝗴𝗿𝗮𝗻𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗲𝘁𝗮𝗿𝗶 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝗲𝗿𝗶, che grazie alle ricchezze che possedevano si sentivano in diritto di potersi appropriare con prepotenza di qualsiasi cosa, anche delle donne 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑢𝑖. Talvolta utilizzavano il 𝗿𝗶𝗰𝗮𝘁𝘁𝗼 per giacere con giovani braccianti, minacciandole di sottrarre loro la retribuzione per il loro lavoro nei campi o di licenziarle e quando opponevano eccessiva resistenza non si astenevano dal ricorrere allo 𝘀𝘁𝘂𝗽𝗿𝗼. Ritenevano, infatti, che il loro status sociale li avrebbe tenuti al sicuro da qualsiasi azione legale, nonché dalle reazioni dei familiari della donna, che molto spesso – in realtà – rimanevano all’oscuro dell’accaduto, a causa della 𝘃𝗲𝗿𝗴𝗼𝗴𝗻𝗮 che provavano le giovani nel confessare la violenza.

A 𝗟𝗮𝗰𝗲𝗱𝗼𝗻𝗶𝗮, alcuni racconti tramandati dalla popolazione narrano di vere e proprie 𝗲𝗿𝗼𝗶𝗻𝗲 𝗳𝗲𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗲 𝗮𝗻𝘁𝗲-𝗹𝗶𝘁𝘁𝗲𝗿𝗮𝗺, che costrette a subire abusi e stupri, nella totale mancanza di tutela della propria persona, hanno deciso di 𝘃𝗲𝗻𝗱𝗶𝗰𝗮𝗿𝘀𝗶 e di ottenere la propria 𝗴𝗶𝘂𝘀𝘁𝗶𝘇𝗶𝗮 𝗽𝗿𝗶𝘃𝗮𝘁𝗮 rispondendo alla violenza con la violenza. Queste donne hanno subito poi le conseguenze giuridiche delle loro azioni ma, nonostante ciò, sono entrate di diritto nell’𝑒𝑝𝑜𝑠 𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒.

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